La conclusione sempre più prossima di questo 2025 ci regala ulteriori perle del totale cortocircuito ideologico della narrazione dominante a livello locale, nazionale e internazionale.
Grande risonanza hanno avuto, in tutti i comuni d’Italia, le vicende relative alla concessione della cittadinanza onoraria a Francesca Albanese, ex relatrice speciale dell’ONU che da anni, e soprattutto dal 2023, denuncia, fatti e dati alla mano, i crimini delle forze d’occupazione israeliane in Palestina. Con questa semplice proposta hanno fatto presto a cadere le maschere di falsa amicizia verso il popolo palestinese, manifestata da tanta parte del PD appena due mesi fa nel tentativo di egemonizzare le proteste tanto prontamente attivate quanto disattivate, del resto, dopo l’altrettanto falsa “pace” vantata da Trump con uno degli effimeri cessate il fuoco attraverso i quali ama farsi propaganda. Si chieda ai palestinesi stessi (almeno 377 uccisi dalla sua proclamazione), ai libanesi, ai siriani o, se si preferisce, ai thailandesi e ai cambogiani.
Se Bologna ha faticosamente confermato tale onorificenza, unendosi a Nuoro, Aci Sant’Antonio, Bari e Sassari, Firenze vi si è opposta assieme a Padova, Torino, Napoli e tutto il Friuli: Sara Funaro, e con lei Italia Viva, non si è quindi fatta scrupoli nel finire nella stessa barricata della Lega, da sempre amica di Israele come tutta la destra “sovranista e populista” in Europa. Della bagarre fiorentina si sono occupate addirittura due testate altoatesine, a conferma degli echi suscitati e riverberati da Palazzo Vecchio.
Un caso analogo, dove però non si è gridato allo scandalo per le “simbologie e strumentalizzazioni politiche”, è accaduto appena a sei chilometri dal capoluogo toscano, ovverosia, appunto, a Sesto Fiorentino.
È passata interamente sotto silenzio, fatti salvi un trafiletto de La Nazione Firenze che l’ha annunciato una settimana prima e un non tanto più lungo articolo del Tirreno Firenze che ne ha fatto una sintesi, l’inaugurazione di un sedicente “Centro della Comunità Democratica Bielorussa” alla presenza nientepopodimeno che della “presidentessa bielorussa” autoproclamata Svetlana Tikhanovskaya, della vicepresidente dell’Europarlamento Pina Picierno e dell’assessore della Cultura (e della Felicità!) della Regione Toscana Cristina Manetti, PD.
Sebbene risultino 550 cittadini bielorussi residenti in Toscana, non è stato comunicato neppure il numero dei partecipanti alla cerimonia. Sono state però riportate le parole di Picierno e Manetti, che hanno esaltato il centro come «un luogo nel quale le voci dei dissidenti vengono ascoltate» e «un segnale forte di solidarietà e di vicinanza a chi è costretto a lasciare il proprio Paese perché la democrazia non è garantita», oltre che come «un luogo dove riunirsi di collaborazione nello spirito comune della democrazia». Si potrebbe supporre, con un velo d’ironia, che se in quella sede “le voci dei dissidenti vengono ascoltate”, è lì che personalità pubbliche come i professori Angelo d’Orsi, Alessandro Barbero e Alessandro Orsini o i giornalisti Marc Innaro, Vincenzo Lorusso e Andrea Lucidi potrebbero organizzare la prossima conferenza, dal momento che le loro voci di dissidenza rispetto al pensiero unico qua da noi vigente essi devono far sentire da Paesi lontani, giacché nel nostro veramente rischiamo di giungere alla constatazione che “la democrazia non è garantita”: basti pensare a quanto abbiamo dovuto penare, in molti, per poter semplicemente vedere un film come Il testimone o dei documentari di RT, piuttosto che una mostra fotografica su Mariupol o una conferenza sulla storia dell’amicizia tra Russia e RPD di Corea (chi scrive doveva essere, ed è poi stato il 25 gennaio, tra i relatori). Basti paragonare a come è stata accolta l’apertura del canale televisivo della stessa RT a Nuova Delhi mentre qua sono stati chiusi i suoi canali televisivi e i suoi uffici di Berlino, Londra e Boulogne-Billancourt e contemporaneamente, nel nostro Paese, è stata soppressa Sputnik Italia. Tacciamo sull’arresto dei due cittadini tedeschi, l’anno scorso, per aver ritrasmesso dal proprio sito le trasmissioni dell’emittente di Margarita Simonyan o delle migliaia di arresti operati in Gran Bretagna per la diffusione di contenuti online invisi al governo londinese. Sorvoliamo sull’intervista al ministro degli Esteri russo richiesta ma poi censurata dal Corriere della Sera, piuttosto che sull’oscuramento dei canali Telegram delle agenzie stampa ufficiali russe RIA Novosti, Izvestia e Rossijskaya Gazeta sul finire dello scorso anno.
La seconda domanda, visto che si è parlato di luogo aggregativo “di collaborazione nello spirito della democrazia”, verte sul perché non si sia dato neppure l’adeguato risalto a questo evento, invitando magari bielorussi sostenitori dell’attuale governo di Minsk per un contraddittorio paritario.
Si tratta chiaramente di una domanda retorica: RT e Sputnik sono state censurate proprio perché in grado di offrire indipendentemente un controcanto di eguale portata rispetto ai cosiddetti MSM (Main-Stream Media). Non c’entra la «giustificazione dell’aggressione all’Ucraina», poiché già prima del 2022 esse riportavano liberamente la versione russa sui fatti del Maidan e della Crimea; peraltro, RT ha ricevuto ben 9 onorificenze internazionali occidentali, tra il 2007 e il 2016 (1), per la professionalità dei suoi servizi, oltre che nomine a prestigiosi riconoscimenti come gli Emmy e gli Abby Awards (2). C’entra piuttosto il fatto che il conflitto ucraino è divenuto una questione esistenziale per la tenuta dell’Occidente collettivo stesso, come dimostra l’atteggiamento guerrafondaio e isterico dell’Unione Europea di fronte a un Trump che cerca, pur tra mille limiti e contraddizioni, di sganciarsene. Lo evidenzia magistralmente un articolo di Otto Lanzavecchia su Formiche.net del 26 febbraio 2022, appena due giorni dopo l’inizio dell’operazione militare speciale:
«Del resto, in una democrazia, la soluzione migliore è contrastare proattivamente un’emittente disinformativa senza doverla escludere dal consesso di voci – la verità non sta in tasca né a chi scrive, né ai legislatori. Ma una cosa è lasciare la propaganda russa ai margini dell’infosfera, su Telegram o altrove, altra è dargli diretto accesso al pubblico e legittimità al pari di emittenti che non sono controllate da uno Stato apertamente ostile. Che gli piaccia o meno, l’Occidente è sotto attacco mediatico da anni: in tempi di sanzioni, occorre ripensare anche l’approccio alle narrative del Cremlino» (3).
In pratica, per il potere e i suoi cantori le voci dissenzienti sono legittime soltanto a patto che restino “ai margini dell’infosfera”, in posizione cioè sempre ed esclusivamente minoritaria e succube della narrazione ufficiale. Nel momento in cui vi raggiungono una parità di estensione e portata, ecco che scatta la censura, con tanti saluti al “pluralismo” e alla “libertà d’informazione”.
Nel caso sestese, tuttavia, il cortocircuito è doppio: “democratico” e “antifascista”.
Gli addetti ai lavori e chi ha buona memoria ricordano bene, soprattutto alla luce dei fatti del 2020, il vessillo sotto cui la cosiddetta “opposizione bielorussa” metteva a ferro e fuoco le piazze e le città dell’ex repubblica sovietica per protestare contro i legittimi risultati delle elezioni svoltesi quell’anno: la bandiera bianco-rosso-bianca, la stessa adottata dall’autoproclamato “Consiglio Centrale Bielorusso”, organizzazione fantoccio istituita dalle truppe naziste per controllare la Bielorussia occupata tra il 1943 e il 1944.




(da sinistra, in alto: manifestazioni dell’opposizione in Bielorussia nel 2020 e immagini di repertorio dal Consiglio Nazionale Bielorusso durante l’occupazione nazista del Paese nel 1943. Foto: Wikimedia Commons)
Chi poteva però venire in soccorso dei nazisti vecchi e nuovi, se non i fautori del «giardino fiorito» in cui «se non siedi a tavola, sei nel menu»?
La Voice of America, proprio nel 2020, si lanciò in un tentativo di debunking definendo «fuorvianti» (misleading) le dichiarazioni del ministro della Difesa bielorusso che notò proprio l’adozione di quella infausta bandiera, il quale ricordò come alla sua ombra furono «organizzati massacri di bielorussi, russi, ebrei, rappresentanti di altre nazionalità». Secondo la VOA, sarebbe stato “fuorviante” legare la bandiera bianco-rosso-bianca ai collaborazionisti filo-hitleriani della Seconda guerra mondiale poiché essa fu in origine la bandiera della “Bielorussia indipendente” proclamata nel 1918 e poi dello Stato separatosi dall’Unione Sovietica nel 1991 (4).
Ciò che però l’articolista-debunker omise di menzionare, ed è questo che rende fuorviante la sua di tesi, è che anzitutto di Bielorussie indipendenti se ne instaurarono due: la prima Repubblica Socialista Sovietica e la Repubblica Popolare, e che la bandiera bianca con striscia rossa rappresentò quest’ultima, che nella sua bramosia di “indipendenza” antirussa strinse rapporti con la Repubblica Popolare Ucraina di Simon Petliura e cercò di avvicinarsi alla Polonia di Piłsudski, due entità definibili, per ideologia e prassi, “proto-fasciste”. Non è certamente un caso, infatti, che i promotori della RPB furono successivamente arrestati negli anni ’30 perché scoperti nel tentativo di fondare un’organizzazione nazionalista e anticomunista clandestina, l’“Unione di Liberazione della Bielorussia”, per la secessione dall’URSS col sostegno polacco e tedesco. Né è un caso che chi oggi sfila sotto quei colori, capeggiati da Svetlana Tikhanovskaya, sostenga apertamente il governo ucraino idolatra di Stepan Bandera e Roman Shukhevich (5) e abbia inviato aiuti alle milizie neonaziste, come il Reggimento Kastuś Kalinoŭski (6), che ha preso parte, come la Legione Parnas e il Corpo Volontario Bielorusso, alle incursioni nelle regioni di Belgorod e Kursk assieme ai loro camerati della Legione Libertà Russa e del Corpo Volontario Russo (i quali, da parte loro, hanno ripreso bandiere e simboli legati al generale Vlasov) (7).
Verrebbe comunque fatto di dubitare, anche senza conoscere in profondità le varie pieghe della Storia, dei motivi per cui l’occupazione nazista della Bielorussia abbia ritenuto di dover riesumare proprio quel drappo anziché, magari, crearne uno nuovo.
Non ci stupiamo comunque, nel sistema sostanzialmente distopico nel quale viviamo, della totale mancanza di coerenza da parte del PD e delle sue stampelle e marionette che, mentre sollevano polveroni sulla partecipazione delle Edizioni Passaggio al Bosco a una fiera del libro, tacciono sul fatto che in una città Medaglia d’Oro alla Resistenza, come amano strumentalmente ricordare specialmente in periodo elettorale, si conceda uno spazio, con avallo istituzionale sia regionale che europeo, a organismi e relativi esponenti impegnati non solo nella riabilitazione del collaborazionismo filonazista, ma anche, oggi, nella destabilizzazione di uno Stato sovrano che, esso sì, difende i valori della Resistenza comune (8).
NOTE
(3) https://formiche.net/2022/02/infowar-propaganda-emittenti-russe/
(4) https://www.voanews.com/a/belarusian-defense-minister-falsely-associates-national-flag-with-nazi-collaborators/6742553.html
(5) https://www.lastampa.it/esteri/2025/11/25/news/tikhanovskaya_dissidente_bielorussa_kiev_europa-15411440/
(6) https://tsikhanouskaya.org/en/news/the-kalinouski-regiment-is-something-truly-unprecedented-in-modern-belarusian-history.html
(7) https://www.nbcnews.com/news/world/belgorod-raid-russian-volunteer-corps-freedom-russia-legion-rcna86168
(8) https://www.sb.by/articles/belorusskaya-delegatsiya-pochtila-pamyat-sovetskikh-soldat-srazhavshikhsya-s-fashizmom-v-ryadakh-ita.html
