In ogni città italiana, grande o piccola, si estende silenziosa e pervasiva una rete di vendita parallela, organizzata, capillare e, paradossalmente, sotto gli occhi di tutti: cittadini, poliziotti, politici, preti, sindaci… Migliaia di persone, perlopiù immigrati, presidiano gli spazi urbani più frequentati: davanti a farmacie, supermercati, mercati rionali, bar e naturalmente le stazioni ferroviarie. Offrono un buon assortimento di prodotti, fazzoletti, mutande, ombrelli, calzini, accendini, a prezzi vantaggiosi (ma non sempre), senza scontrino, senza garanzia, senza alcun apparato fiscale o legale. In estate, sulle spiagge, si passa a merce di fascia più alta: cappelli, vestiti, occhiali da sole. Nelle città d’arte si punta alle riproduzioni, ai poster dei monumenti sul pavimento stradale che vengono messi, poi tolti e poi rimessi in sincro col passaggio dei vigili.
Chi rifornisce questo esercito? Dove sono le fabbriche fantasma? Da dove arrivano gli ombrelli pieghevoli tutti uguali che sbucano magicamente ogni volta che piove? Le merci sono imbustate e i loghi delle aziende produttrici ben visibili.Non è un fenomeno marginale. È, anzi, forse la più estesa rete di distribuzione al dettaglio d’Italia. Una sorta di Amazon pre-digitale, ma senza magazzini, senza app e con tempi di consegna istantanei.
Chi produce queste merci? Chi le importa? Chi le stocca e le distribuisce? Non è magia: è una filiera solida, reale, ma opaca. Le merci arrivano da lontano (paesi asiatici) ma anche da vicino (le merci sono tutte impacchettate con le denominazioni dei produttori), passano i confini (spesso senza difficoltà), si accumulano in depositi informali, e da lì si riversano sui marciapiedi.
I controlli? Sporadici. Le inchieste? Rare. Gli interventi? Nel migliore dei casi concentrati sull’anello più debole: il venditore finale. Ma, tranquilli, non avviene spesso, sarebbe come arrestare il cameriere per evasione fiscale del ristorante. Ma allora mi domando – da cittadino che ha visto nascere ed affermarsi questo sistema – perché questa tolleranza? Probabilmente perché questa economia parallela, seppur illegale, è funzionale al sistema ed è ormai entrata a pieno titolo nel panorama cittadino. Essa infatti: 1) Fornisce un reddito minimo a decine di migliaia di persone altrimenti disoccupate e invisibili; 2) Riduce la pressione sociale sulle istituzioni pubbliche (meglio un venditore abusivo che un sussidiato); 3) Garantisce prodotti economici e pronti all’uso a consumatori sempre più frugali che così si sentono anche in pace con la propria coscienza; 4) Mantiene una pace urbana apparente, fondata sulla rimozione del conflitto. Nel frattempo, il sistema legale (il commercio in regola, le partite IVA, gli ambulanti autorizzati) si trova in concorrenza sleale, schiacciato tra burocrazia e tasse. È un po’ come giocare a calcio con le regole del calcio mentre l’altra squadra gioca a rugby e può permettersi di cambiare le regole in corsa.
Ma quali sono le dimensioni del sommerso? Facciamo un semplice calcolo da bar (o da marciapiede). Un venditore abusivo può ricavare, tra vendite e generosità dei passanti, circa 35 euro al giorno, meno non avrebbe senso per un impegno giornaliero. Su base annua, sarebbero intorno ai 12-13.000 euro netti, più di molti stage “formativi” regolarmente retribuiti. In italia ci sono 7896 comuni. Ipotizziamo che mediamente in ogni comune ci sia 1 (uno solo) venditore fuori dal bar Centrale del paese. Alcuni comuni non conteranno neppure un solo venditore, altri invece 2, 3, altri invece un centinaio o forse più. Ma noi partiamo dalla media di 1 venditore per singolo comune. Bene, i 12mila Euro del singolo venditore moltiplicati per i 7896 fanno, 94.752.000. Arrotondiamo, 95 milioni di Euro. E se i venditori sono mediamente 2 per ogni comune gli Euro diventano 190milioni. E se invece di 35 Euro al giorno l’incasso fosse superiore? Insomma, siamo in presenza di una vera e propria impresa nazionale con un giro d’affari e delle marginalità cash (i famosi lilleri senza i quali “non si lallera”) inimmaginabili.
Nelle grandi città si parla di cifre enormi, con migliaia di venditori attivi. Si arriva cioè ad una cifra che non è più trascurabile, né economicamente né socialmente. È un’economia reale, solo che si muove fuori dai radar del Fisco. E del PIL. Sociologicamente, questo fenomeno può essere classificato come integrazione per sopravvivenza – non un’inclusione vera, ma una forma di integrazione marginale o inclusione subordinata. È l’equivalente sociale del “non ti vedo, non ti sento, non parlo” dei tre scimmiotti. Economicamente, lo potremmo definire un esempio di efficienza per esclusione. Chi non ha accesso alle regole del mercato le aggira, creando un mercato parallelo con logiche autonome ma con effetti sistemici.
La domanda iniziale resta: Perché nessuno vede ciò che è estremamente visibile? Perché vederlo vorrebbe dire doverlo affrontare. E affrontarlo richiederebbe ripensare profondamente il rapporto tra legalità, economia e marginalità urbana. Un compito che nessuno, per ora, ma direi da sempre, ha l’interesse o il coraggio di assumersi. Molto più comodo continuare a far finta che quei fazzoletti ma anche vestiti sulle spiagge si materializzino da soli come per magia, in un trucco di prestigio urbano che dura da decenni. Dopotutto, nell’Italia delle commissioni, dei tavoli tecnici e delle task force, affrontare un problema nel concreto sarebbe un atto quasi… rivoluzionario.