Di Antonio Mereu
Leggo dalle cronache che a Firenze ci si strappa i capelli: i turisti che ci sono, non spendono. Fanno la foto, si comprano una bottiglietta d’acqua alla Conad, mangiano velocemente un panino, e spariscono nel nulla. I ristoratori si lamentano, i commercianti si disperano.
Eppure, viene da chiedersi: ma cosa dovrebbe mai comprare, oggi, un turista a Firenze?
L’offerta? Sempre la stessa. Prezzi? Sempre più alti. Qualità? Sempre più bassa. Firenze è diventata una Disneyland rinascimentale con menu plastificati e piatti che — nel migliore dei casi — sembrano usciti da un autogrill degli anni ’90:
• Un’insalata da mensa a 15 euro
• Una ribollita riscaldata a 14
• Trippa, lampredotto e porchetta a volontà, identici in ogni angolo
• Un bicchiere di vino a 9 euro
• Spritz mediamente a 12 euro
Il servizio è frettoloso, l’ambiente omologato, l’illusione dell’autenticità dura meno di un panino al lampredotto. Eppure si pretende che il turista consumi “con rispetto”, che spenda “in modo consapevole”, che partecipi al “valore della città”. Ma il valore lo deve creare chi ospita, non chi visita.
La crisi del turismo a Firenze non è colpa dei turisti. È il risultato di un modello economico che ha puntato tutto su una sola carta: il turismo. Si è uccisa l’artigianalità, si è svuotato il centro dai residenti, si sono rimpiazzate le botteghe con negozi di souvenir e wine-bar senz’anima. Il tessuto urbano è stato venduto a pezzi, con un Airbnb ogni due portoni e affitti che solo un influencer di passaggio può permettersi. Una città intera trasformata in un distributore automatico di “esperienze locali” preconfezionate.
Ma l’economia a monocultura è come il fast food: prima sazia, poi disgusta, e infine ti avvelena.
Firenze soffre di una malattia precisa: la bulimia dell’offerta turistica. Aprono paninoteche, vinerie, ristorantini “tipici”, tutti con lo stesso tagliere, la stessa trippa, la stessa porchetta, la stessa panzanella. Ogni via ha 10 locali identici, con insegne diverse ma lo stesso menù da fotocopia (vedi Via S. Agostino o Piazza S. Spirito).
Non parliamo poi del capolavoro del trash: le buchette del vino. Un tempo passaggio umile e ingegnoso, oggi sono ridicolizzate con prosecco in plastica e file per un selfie. Non è folklore: è marketing travestito da tradizione. Una città intera ridotta a Instagram con l’accento toscano.
Cosa rimane di Firenze?
Una città che si è venduta tutta al turismo, ma che ha dimenticato come si accoglie davvero.
Una città che chiede rispetto, ma offre scortesia, prezzi spropositati e qualità scadente.
Una città che si lamenta se i turisti non spendono, ma non si chiede mai se valga davvero la pena spendere qui.
Firenze si è illusa di poter vivere di solo turismo. Ma il turismo non è un dio: è un animale capriccioso. Se lo nutri solo di cartoline, prima o poi vola via. E quando vola via, ti lascia esattamente quello che meriti: le sedie vuote, le vetrine piene e la realtà ( e anche le tasse ) che bussa alla porta.