Toscana: la vittoria della sinistra e le responsabilità del centrodestra

TOMASI STAGE

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Di Francesco Gorini

Hanno vinto Giani e Renzi. Come prevedibile. Non perché abbiano offerto una visione migliore, ma perché la Toscana continua a poggiare su uno zoccolo duro che vota per appartenenza, non per convinzione.

Per moltissimi elettori di centrosinistra, destra e sinistra non rappresentano due prospettive diverse sui diritti civili, politici, sociali o economici: sono due fronti morali. Il bene contro il male. In questa narrazione, la destra non è percepita come la forza che privilegia i diritti individuali rispetto a quelli collettivi, ma come il partito dei furbi. E non si tratta di una minoranza: questa visione è diffusa anche tra elettori con elevato livello culturale, soprattutto nelle aree dove il voto a sinistra è alto e storicamente radicato. Fuori da Toscana ed Emilia-Romagna — le uniche due regioni da sempre governate dalla sinistra — è raro trovare una polarizzazione così profonda e persistente.

Ma soprattutto, ha perso il centrodestra. Circa 140.000 elettori che avevano votato Ceccardi non hanno votato Tomasi. Non perché Tomasi fosse peggiore, ma perché la psicologia dell’elettore di centrodestra è diversa. Nella maggior parte dei casi non vive il voto come un atto ideologico, né vota “contro il male”. Vota solo se ritiene che il voto possa incidere sulla propria vita: lavoro, pensione, ambiente, futuro dei figli. Se questo nesso non è percepito — o lo è in modo troppo debole — manca la spinta ad andare alle urne, e l’astensione diventa la scelta naturale. Evidentemente Tomasi non è riuscito a trasmettere al potenziale elettore di centrodestra che la sua gestione avrebbe inciso positivamente e concretamente sulla vita quotidiana.

E poi c’è Vannacci. Che ha dato — involontariamente — una grande mano alla sinistra. Alcune sue idee meritano attenzione, come la critica a una scuola ormai livellata verso il basso, costruita per non “disturbare” lo studente non italofono e più attenta all’inclusione formale che alla qualità educativa. Tuttavia, il modo in cui le ha espresse ha reso impossibile discuterle seriamente. Dire che non ha senso mettere nella stessa classe chi ha capacità e attitudine per entrare alla Normale di Pisa e chi non ha voglia di studiare è un concetto che si può condividere o contestare, ma resta legittimo. Usare per esprimerlo la metafora che non ha senso far competere un olimpionico con una persona in carrozzina si presta ad essere trasformato in un messaggio devastante: che il disabile non debba stare nella stessa classe dei “normodotati”. Anche se ha più talento e disciplina di tanti normodotati fancazzisti. È stato un errore di comunicazione macroscopico. E resta difficile comprendere come, durante la campagna elettorale, Tomasi non sia riuscito a convincere Roma a intervenire. Non serviva censurare Vannacci: bastava chiedergli metafore più intelligenti e meno divisive. Limitarsi a prenderne le distanze ha finito per rafforzare Giani.

Qualcuno afferma che in Toscana non c’è voglia di cambiamento perché si vive bene. Vero, ma solo per alcuni. Se hai ereditato due case a Firenze e le hai trasformate in B&B, o se sei inserito nel sistema delle relazioni giuste, allora sì: la Toscana funziona. Ma se sei una coppia normale, senza casa regalata dai genitori o ereditata dai nonni, con stipendi fermi e costi in aumento, questa narrazione suona stonata. E se sei un brillante laureato in discipline STEM — ingegneria, matematica, fisica, biotecnologie — che ha scelto quel percorso perché hai creduto nella promessa, ripetuta da oltre cinquant’anni dalla sinistra, che la Toscana sarebbe diventata una “Silicon Valley italiana”, ed oggi ti trovi a scegliere tra un impiego burocratico, un lavoro dequalificato o l’emigrazione, la realtà è ben diversa.

I problemi veri — produttività, sanità, pensioni, sviluppo — tutti dichiarano di volerli affrontare. Ma evidentemente molti elettori di centrodestra non hanno creduto che Tomasi sarebbe riuscito a fare meglio di quanto la sinistra ha fatto in oltre cinquant’anni di governo ininterrotto. O forse, per troppi, l’idea di benessere è ancora legata a un modello che oggi non regge più.