Le distorsioni nella gestione del patrimonio arboreo in Italia e l’importanza dei concetti di
continuità e partecipazione per una nuova cultura del verde urbano
In un contesto come quello in cui stiamo vivendo, in cui il taglio di alberi sani e maturi continua a suscitare proteste, interrogativi e indignazione, è importante aprire canali di confronto serio e informato sulla gestione del verde urbano, spesso vittima di logiche di semplificazione, incuria o interessi poco trasparenti. In questa conversazione ospitata da TheDot Cultura, Stefania Valbonesi intervista il professor Marco Bencivenni – vicepresidente di Italia Nostra Firenze e storico dell’architettura e dei giardini – che analizza con chiarezza e passione le storture che colpiscono la cura degli alberi nelle nostre città, con un focus particolare su Firenze.
Il Verde Pubblico è un atto di democrazia.
Il professor Bencivenni sui vizi della gestione delle alberature urbane
Se in un contesto urbano si abbatte una pianta di 80 anni, per risarcire il danno ci vogliono 3mila giovani piante, secondo quanto dice il noto agronomo Daniele Zanzi. Comincia così la conversazione con Mario Bencivenni, docente e storico dei giardini, cui ci siamo rivolti per andare fino in fondo a un tema portante dei nuovi orientamenti delle giunte di quasi tutte le città italiane, ovvero il tema del “bosco urbano”. All’ombra del quale, tuttavia, si continua a falcidiare, armati di motosega, alberature spesso storiche e “pensate”, quando ancora c’erano giardinieri e non appalti a ditte spessissimo slegate dal territorio e dalla città del cui verde dovrebbero prendersi cura, da veri e propri maestri del verde. Proprio con riguardo al difficilissimo periodo di mutamento climatico che stiamo affrontando, con città sempre più bollenti, forse i nostri alberi adulti potrebbero essere curati in ben altro modo. Almeno il dubbio, di fronte ai cittadini che a Milano come a Cervia o a Firenze o a Bologna, protestano contro gli abbattimenti, sembra senz’altro legittimo.
Dunque si diceva, “bosco (o foresta) urbana”. “Termine senz’altro suggestivo – spiega il professor Bencivenni – ma anche estremamente sbagliato. Non è corretto parlare di foresta urbana perché nelle città il verde non è mai “forestale”, ma è sempre giardinaggio. Per una ragione estremamente semplice: in Italia, le città storiche sono nate senza verde, nel senso pubblico, in quanto contenevano orti, giardini privati di modeste dimensioni , ma non il verde nell’accezione moderna di parco pubblico, o decoro pubblico. In città, nelle città antiche, le piante non ci sono perché hanno bisogno di ampi spazi naturali, mentre nelle città medioevali ad esempio, mancava terra e luce, proprio per la concezione urbana compatta dell’epoca. C’erano i giardini delle grandi dimore signorili, che servivano anche da orti. Per giungere alla moderna accezione di verde urbano bisogna arrivare alla modernità, con l’esplosione ottocentesca che a sua volta deriva dalla necessità di combattere gli effetti delle varie fasi dell’industrializzazione, che trasforma i quartieri popolari e rende necessario introdurre il verde, stavolta per pubblica utilità e come palliativo per l’aggressione delle fabbriche e degli slums connessi”. Per cui, se foresta urbana è in un certo senso una fake, che oltretutto giustifica abbattimenti seriali con il proposito dichiarato di piantare più alberi per la sua creazione, il vero nemico del verde urbano è qualcosa molto collegato a questo insieme di propositi, ovvero, lo smantellamento dell’apparato di cura del verde pubblico. Detto più banalmente, la falcidia di giardinieri che con ben poche eccezioni, le amministrazioni comunali hanno attuato nel nostro Paese, al grido di “meno spese”.
“Il principio che guida la gestione del verde urbano – spiega il professore – è quello della continuità della cura nel tempo e nello spazio. Un principio che non può essere oggetto d’appalti”. No, a meno che non si progetti già ab initio un verde temporaneo, da rinnovarsi in scadenze temporali ravvicinate; insomma, un verde “usa e getta”, che possa essere gestito in termini di brevi annualità (venti anni, cioè un arco brevissimo per un albero) e che sembrerebbe fare a cazzotti con il concetto di foresta urbana. Sembra, ma non è, se il criterio che si usa è quello che “tanto si ripianta”. Un motto che è perfetto per imprese e vivaisti, ma non per un verde urbano utile. A cosa? Oltre al decoro, che solleva e blandisce la psicosi nevrotica dell’umanità moderna, oltre alla tutela della biodiversità (dagli uccelli alle piante che fanno riferimento ai grandi alberi cittadini), anche allo scudo che dovrebbe tutelarci nell’inasprimento delle condizioni climatiche. Contro il quale, è del tutto ovvio, un conto è un tiglio centenario un conto una giovane pianta allevata in vivaio, trapiantata e poi abbandonata a se stessa, in un ambiente naturalmente ostile come la città.
“Tutto ciò ci consente di affrontare un problema ulteriore – prosegue Bencivenni – che è quello della continuità della gestione amministrativa, la più pericolosa e silente che ci sia. Intanto, sarebbe interessante fare una ricerca sui titoli di competenza di chi da qualche anno è posto ai vertici dell’amministrazione del verde urbano, in particolare nelle amministrazioni comunali, a partire da Firenze. Bravissimi senz’altro, ma se ne facciamo una questione di competenze, ci accorgiamo che nella stragrande maggioranza provengono da settori o hanno titoli, del tutto incongruenti o addirittura opposti agli interessi che dovrebbero tutelare. Così, abbiamo un profluvio di ingegneri civili o della mobilità o di altre specialità che non vantano nessun titolo per la gestione del settore giardini, verde pubblico, alberature storiche e non. Una situazione esasperata dalla continuità amministrativa: gli assessori cambiano, i direttori generali no. E quando una macchina è stata rodata su principi precisi, prosegue per inerzia o per calcolo politico, in ogni caso è molto difficile distorglierla dai binari precostituiti”.
Anche la dilagante scelta di sostituzione delle alberature con alberature urbane con cicli ventennali, risulta un criterio assurdo anche per un’altra questione. “Dobbiamo capire una cosa – dice Bencivenni – un albero generalmente, a 4 anni, è ancora nella fase neonatale. Molte delle alberature ornamentali utilizzate, come i pini, arrivano naturalmente anche a 200 anni. Ciò significa che in generale un albero è nella fase adulta, vigorosa e perciò capace di fornire i suoi benefici in termini di ossigenazione, ombreggiatura e via dicendo, a circa 80 anni. Abbattere alberi a vent’anni di vita è un paradosso, dispendioso da un lato, insensato dall’altro, perché si impedisce alla pianta di esplicare ancora per anni tutti i suoi benefici sull’ambiente”.
Il lamento più comune nelle amministrazioni locali è la mancanza di fondi. Falso, almeno in questi periodi di PNRR, dal momento che, nel 2021, il Ministero della Transizione Ecologica ha firmato l’accordo da 300 milioni di euro per la tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano prevista appunto nel PNRR insieme a ISPRA, Cufa, Istat e Centro interuniversitario di ricerca “Biodiversità, Servizi ecosistemi e Sostenibilità” (Cirbises) dell’Università Sapienza di Roma. Non solo, la a Strategia europea per la biodiversità invita le città con più 20.000 abitanti a dotarsi al 2030 di un Piano del verde urbano, chiamato anche Piano urbano per la natura. Questi sono solo alcuni dei richiami normativi europei, dal momento che esiste anche la legge 10/2013 (“Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”) che è il riferimento legislativo principale del settore, e mette in luce non solo l’importanza della predisposizione di un piano del verde, ma anche la predisposizione di alcuni strumenti nel senso del controllo, della partecipazione dei cittadini, della tutela delle alberate, dei filari e degli alberi monumentali di particolare pregio paesaggistico. Inoltre prevede che i Comuni, una vota approvato il Piano del Verde, possa raddoppiare gli investimenti dedicati.
“Eppure tutto ciò non è bastato e non basta – dice lo storico dei giardini – in quanto se nei Piani del Verde manca la parte dedicata alle strategie di attuazione degli obbiettivi annunciati, tutto porta a confermare le modalità attualmente utilizzate, cioè al potenziamento del sistema di esternalizzazione attraverso appalti non solo di lavori ma anche di servizi (cioè progettazione e direzione dei lavori), alimentando il cosiddetto appaltificio, eretto a sistema purtroppo anche per gli altri servizi pubblici locali”.
Del resto, l’accelerazione, secondo il professore, è legata all’accentramento dei poteri avvenuto con l’elezione diretta del sindaco e il suo potere di nomina della giunta, un modulo di gestione del potere che esclude per sua natura la partecipazione, ovvero un modello democratico dello stesso. “Anche sul termine partecipazione occorre essere precisi – conclude Bencivenni – non si può parlare di partecipazione quando ci si limita a convocare assemblee pubbliche per diffondere decisioni già prese, in quanto la partecipazione democratica si traduce in una presenza dei cittadini nella fase della formazione degli atti”. Un principio, quello della partecipazione delle popolazioni e comunità locali nella fase di determinazione e formazione degli atti , che, va detto, è previsto dalla stessa regolamentazione europea, Italiana e Toscana.