Per Marcheschi, il declassamento della Pergola rappresenta uno spartiacque
tra vecchie logiche di occupazione ideologica della cultura e una gestione improntata al rispetto di criteri tecnici
È ufficiale: il Teatro della Pergola è stato declassato, e non rientra più tra i teatri nazionali. Una decisione che ha scatenato reazioni accese nel mondo della cultura e della politica. In un video pubblicato sulla sua pagina Facebook, Paolo Marcheschi (senatore di Fratelli d’Italia, capogruppo in Commissione Cultura al Senato) ha ricostruito nel dettaglio i motivi del provvedimento e le dinamiche che, a suo dire, lo hanno reso inevitabile. In questo articolo riportiamo integralmente le sue dichiarazioni, dalle sette gravi criticità evidenziate dalla commissione tecnica, fino alle dimissioni clamorose di tre membri, legate – secondo Marcheschi – a logiche ideologiche e di appartenenza politica:
“La Pergola è stata declassata, e non è più teatro nazionale. Quali sono le motivazioni per cui è stata fatta questa valutazione dalla commissione di tecnici?
Sono sette le richieste che erano state fatte alla Pergola, evidentemente non esaudite:
1) si diceva, leggendo dal verbale, che il programma triennale artistico risultasse estremamente generico, se non inesistente;
2) il contratto del direttore artistico è viziato, perché assegnava a lui poteri insindacabili — il che non è previsto neanche dal codice civile, ma soprattutto è una figura non prevista dallo statuto, quindi abusiva;
3) sono stati interrotti i rapporti artistici internazionali, collaborazioni che facevano punteggio;
4) erano stati cancellati i rapporti di collaborazione con enti istituti altri teatri che davano pluralità al programma della Pergola;
5) è stata interrotta la scuola professionale (vi ricordate la scuola professionale di Favino?);
6) sono stati fatti ulteriori tagli al bilancio che avevano comportato una non corrispondenza tra la programmazione artistica depositata e quella poi che effettivamente sarebbe stata realizzata;
7) in ultimo, l’esodo forzato del direttore generale – l’unico che può firmare e prendersi delle responsabilità in una fondazione, ha comportato ovviamente una valutazione negativa.
La Commissione riunita, alla luce di questi sette requisiti che evidentemente non sono stati esauditi, ha giudicato il programma come nemmeno ricevibile — non è stato assolutamente preso in considerazione, quindi la commissione non si è nemmeno espressa per dare un voto. Questa valutazione è stata fortemente contestata da tre membri (dei sette previsti) che hanno chiesto di non votare; e quando la Commissione è andata al voto, loro hanno deciso di dimettersi e di uscire.
Ora, col senno del poi, siamo andati a vedere questi soggetti che si sono dimessi. Come mai si sono comportati così? E ci siamo resi conto che tutti e tre i soggetti erano di chiara nomina del Partito Democratico: uno di loro addirittura in Commissione — leggo il verbale — dice che “io non posso rimanere a votare una cosa del genere: mi dimetto perché devo rispondere a coloro che mi hanno nominato qua”. Voi capite, a questo punto, che se ci sono state delle ingerenze politiche, non sono state del Governo o della maggioranza, ma evidentemente sono state da parte del PD o della sinistra che da sempre utilizza questo metodo, ovvero inserisce uomini suoi all’interno dei poteri decisionali del Governo e di tutti i ministeri, dove si decide a chi si danno le risorse, a chi si fa fare carriera etc. — è così da sempre. Quindi, se non la vogliamo chiamare egemonia politica, è comunque sicuramente occupazione del potere.
E da tanti anni che il PD lo fa. Adesso che al Governo c’è il centrodestra, queste cose non si fanno più: si vota a maggioranza, e la maggioranza evidentemente non ce l’ha più il PD. Si rassegnino, perché questa è la democrazia. Se ci sono i requisiti tecnici si vota a favore, se non ci sono i requisiti tecnici si vota contro. Se qualcuno se ne dispiace, si dimette. Ce ne faremo una ragione.”