Firenze vista da fuori. La “piccola” ma virtuosa Pistoia negli ultimi anni ha trovato una sua dimensione, mentre la “grande” Firenzina naviga a vista.
di Antonella Gramigna
C’è un confine invisibile che separa due città a meno di quaranta chilometri di distanza: Firenze e Pistoia. Da una parte, il caos in elegante decadenza; dall’altra, un piccolo miracolo di equilibrio civico. Basta scendere alla stazione di Santa Maria Novella e poi ripartire per quella di Pistoia per sentire il cambio di clima – non solo atmosferico, ma sociale, umano, urbano. Firenze, regina rinascimentale, sembra oggi ostaggio di sé stessa: traffico fuori controllo, degrado crescente, spaccio dilagante anche in pieno centro storico, furti, baby gang. A qualunque ora, in qualunque quartiere. Una città che ha svenduto la sua bellezza, divorata da un turismo predatorio che consuma senza restituire. Una città dove l’apparenza regna e la sicurezza vacilla.
Poi c’è Pistoia. Piccola, discreta, amministrata con rigore e visione. Niente proclami roboanti, niente eventi per distrarre l’opinione pubblica dai problemi reali. A Pistoia si lavora in silenzio, ma con metodo. La città è pulita, gli spazi pubblici sono curati, le iniziative culturali coinvolgono davvero i cittadini e i quartieri non sono lasciati allo sbando. Si può passeggiare in centro la sera senza sentirsi un bersaglio. Non è perfetta, certo – nessuna città lo è – ma funziona. E questo, oggi, è un lusso raro.
Il confronto diventa imbarazzante quando si parla di sicurezza. A Firenze, quartieri come San Jacopino, Rifredi, Le Cure o l’Isolotto, aree quali le Cascine, una volta centrali e tranquilli, oggi combattono quotidianamente contro criminalità diffusa e incuria cronica. I residenti si sentono abbandonati, le segnalazioni si moltiplicano, ma spesso cadono nel vuoto. A Pistoia, invece, il rapporto tra cittadini e istituzioni è più diretto, più efficace. C’è ascolto. C’è prevenzione. C’è – ed è qui la differenza sostanziale – una visione politica non schiacciata sul consenso immediato, ma orientata alla costruzione del bene comune.
E allora, la domanda sorge spontanea: perché Firenze, con tutta la sua ricchezza storica, economica e istituzionale, sembra incapace di fare ciò che Pistoia fa con molte meno risorse? Perché tollera che la bellezza si trasformi in cartolina sbiadita, che la convivenza civile sia delegata al caso, che la sicurezza diventi un privilegio e non un diritto?
Forse perché ha smesso di ascoltare i suoi cittadini. Forse perché l’abitudine al potere ha generato cecità. O forse perché il mito dell'”eccezionalità fiorentina” ha reso scomodo il confronto con realtà più piccole, ma più virtuose.
Firenze dovrebbe guardare a Pistoia non con snobismo, ma con umiltà. Perché il buon governo non si misura in selfie con turisti, ma nella qualità della vita di chi la città la vive ogni giorno. E se Pistoia è diventata, silenziosamente, un esempio, allora forse vale la pena fermarsi e domandarsi: cosa è davvero diventata Firenze? E, soprattutto, chi ha ancora il coraggio – e la lucidità – di restituirle dignità?
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