Boicottiamo le Giubbe Rosse!

GIUBBE ROSSE DISEGNO

di Roberto Bagattini

Dopo un lungo travaglio il Caffè le Giubbe Rosse ha riaperto i battenti. Ma non è come lo vogliamo. Anzi.

Una faccia da impiegato del catasto, capelli impomatati e brillanti all’indietro a mostrare la stempiatura, l’anonimo vestito nero, camicia bianca, polsini, cravatta rossa.

In fondo alla sala il Signor X si ripiega su se stesso con il gomito sul desco, mentre inforca il tagliolino all’uovo avviluppato in una salsa al burro di malga, condito da scaglie di tartufo bianco di Alba e parmigiano vacche bianche. Ma ciò che rende vorace il Signor X durante il pasto non è la pietanza reale, ma la sua rappresentazione: sul palato non batte il vero gusto del tagliolino – pecunia non olet – ma è quello sudaticcio della cartamoneta a fargli eco nel cervello. Presto l’amalgama viene buttata giù dalla macchina intestinale alla velocità di un bonifico istantaneo.

Cammino verso l’ultima sala, adiacente al ristoro del Signor X, dove i futuristi fiorentini si scazzottavano da mane a sera. Apro la vetrata a scorrimento, sporgo la testa – è una specie di deposito: “ingresso vietato ai non addetti” – intuisco su di me lo sguardo del Signor X, ma voglio rivedere il disegno di Primo Conti, che puff… è sparito! La mia impertinenza viene presa per la collottola dall’impeccabile inglese del Signor X; rispondo con il mio italiano da madrelingua e chiedo dove sia finita l’opera. Allora un paonazzetto ma rigido come il marmo Signor X balbetta un “Ah, si?”, rivelo il mio stupore e seguita: “Ah, si?”; lo incalzo, recita ancora: “Ah, si?”. Esprimo i migliori complimenti verso il nuovo direttore, e conclude: “Ah, si?” – grazie, prego, arrivederci, buonasera.

L’appassionato studioso che gira la città della cultura come un cacciatore di lumache capirà, poveretto, che non c’è trippa per gatti ma solo balocchi per turisti.

Infatti il Caffè è ottimamente ristrutturato a uso di cafoni e sciocchini. Luccicante il bar ma tristi le fotografie pixelate degli intellettuali di un tempo, riflesse da uno schermo da quattro soldi appoggiato alla cassa. Però i lampadari acquistati ad hoc sono belli, bellissimi, nuovi, griffati, enormi. Dove cincischiavano Montale, Luzi, Parronchi, un annoiatissimo Gadda, e Papini, Soffici, Prezzolini, un selvatico Campana, tra caffè, sigari e pipe, ora, indistintamente i turisti, locali e americani e russi, biascicano spritz, patatine, olive vecchie, noccioline riversate di ciotola in ciotola, per un five stars aperitif immerso in the florentine art and literature history da veri pirla.

Tra personaggetti impettiti e modaioli, ignoranti e protervi con le loro scarpe lucide e stringate, senza alcun afflato orfico che tuttavia giova al Signor X, prono in una fellatio al danaro, al trend, al “si fa così”. E più sugge l’albero della vita più sbiadiscono gli incendi futuristi e il senso della storia impallidisce; le cortigiane del peggior conio sbraitano sempre più discinte tra un cocktail e l’altro, e il Nostro sbava, infoiato come una maitresse.

Non lasciamo che il fiorentino perda se stesso e che chiunque abiti la terra venga ancora imbrogliato, boicottiamo le Giubbe Rosse perché è un altro simbolo di sudditanza, un baluardo dell’indifferenza verso la storia del Novecento, un altro luogo contraffatto. Bruciamo l’almanacco del gotha fiorentino dove è scolpita la figura del galante imprenditore del turismo culturale insieme agli altri beccamorti delle belle arti.

Da Plattì, dal Mulassano, da Baratti a Torino si entra con la grazia del luogo sacro; così al Bar Jamaica di Milano. Per quanto tutto il resto sia rosicchiato dalla globalizzazione, si ritrova la cura di un luogo preservato ma in funzione come un tempo: le mostre temporanee, piatti e aperitivi a prezzi popolari, e un prezioso catalogo pubblicato da Rizzoli ricorda con rispetto la sua storia, senza musealizzarla, ma dando inizio a un nuovo corso. Se al Bar Jamaica “la Zia” con i suoi giovani tirapiedi tiene in vita il locale, il Caffè le Giubbe Rosse, votato al niente, finisce la sua storia – non c’è un fico secco.

Cosa costa acquistare le riviste La Voce, Il Leonardo, Lacerba, comprare opere di Soffici, caricature di Papini, e i loro autografi, così di Marinetti, le fotografie che ritraggono il gruppo fiorentino e milanese, le prime edizioni dei libri? Sono ancora oggetti che si trovano agevolmente sul mercato, anche a prezzi favorevoli. Un direttore coraggioso salverebbe l’arte dalle case d’asta, le strapperebbe alla cupidigia del collezionismo privato, le mostrerebbe come patrimonio comune e che a tutti deve essere restituito.

Lo storico Caffè le Giubbe Rosse dovrebbe diventare un centro studi delle arti futuriste fiorentine, depositario di un’epoca rivoluzionaria: collaborare con il Museo Soffici della vicina Poggio a Caiano, con il Centro Studi Dino Campana della mesta Marradi, recuperare i manoscritti di Papini defunti nei sotterranei del Centro Manoscritti dell’Università di Pavia; dovrebbe essere l’arteria felice del Gabinetto Vieusseux: un informale tempio delle arti. E invece facciamo spazio alla perversione della ciccia, al bisteccone di chianina e ingaggiamo lo Chef che vanterà stelle e stelloni italici; preferiamo il lusso all’eleganza, la codardia alla dignità, la squallida banalità del danaro alla sacralità, per falsificare un luogo e renderlo identico a qualunque altro dove l’eleganza è misurata dai prezzi del menù e dai vestiti sartoriali.

Si sa: la cultura è prima cash, stile politico, asservimento al padrone, e solo dopo è amore, ma va da sé che amare qualcosa di ormai contraffatto è una chiara illusione quando non un’idiozia.

Ecco il Signor X – Antonio Schena, Michele Mazzeo, l’inquietante Igor Bidilo – che grazie a lui Firenze trapassa ancora nel suo monumento sepolcrale, senza resti, perché privato dei suoi abitanti. Un cenotaffio su cui recitano i ridicoli versi: “Da secolare squallore, a vita nuova restituito”.

In copertina: vignetta a cura dell’autore